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Nov 2010

Avere il polso della situazione

il polso della situazione

Fermo restando che uno può correre più o meno senza nulla, fatti salvi i limiti legali della decenza e quelli fisici della preparazione, questi sono due utensili che nelle mie corse di questi tempi non mancano mai.

Un
Garmin 110, che è tra le versioni più semplici della gamma, ti dà la distanza percorsa, sopra, il tempo totale trascorso, in mezzo, e il ritmo medio del giro, sotto. Per giro si intende dall’ultima volta che è stato premuto il pulsante “lap”. Si può anche automatizzare la cosa, io ad esempio ho fissato l’autolap ad un chilometro.

Chiaramente chi si alleni con tabelle che richiedono lavori intervallati complessi, o sia un appassionato di dati, si troverà meglio con modelli più completi, che raccolgono e forniscono maggiori informazioni. Viceversa anche un’occhiata all’orologio in cucina all’uscita ed al rientro può essere sufficiente.

L’altro è un braccialetto
roadID su cui sono stati incisi il mio nome e cognome, anno di nascita e numeri telefonici di riferimento. Si toccano tutti i metalli possibili ma può capitare un’emergenza quando si è fuori, ed in genere non si hanno con sé documenti identificativi. Grazie al braccialetto si potrà facilmente risalire all’identità del malcapitato ed avvisare i familiari.

Anche qua, un bigliettino in tasca con i numeri svolge la stessa funzione, per quanto sia meno immediatamente visibile ed il braccialetto bilanci il peso dell’orologio (di nuovo, poca cosa, lo so).

Del resto non sono consigli per gli acquisti, ma solo inviti alla riflessione.

O neanche.

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Pista!


45
Dal 1980 sono passati 30 anni, durante la maggior parte dei quali ho speso alcuni giorni alla settimana nei pressi di, o sopra una, pista di atletica. Correndo o facendo correre.

Non l’ho sempre amata, anzi, all’inizio proprio non mi piaceva, per la sofferenza che pensavo rappresentasse.

Ma adesso è un’altra storia, ho cambiato idea sulla sofferenza.

E c’è qualcosa di confortevole in una pista, hai dei riferimenti precisi, e se ti ci sai muovere hai tutte le distanze che ti servono già misurate.

Oppure nessuna, e ci puoi correre intorno finché ne hai voglia, in genere nell’anello di erba che sta tra lei e l’immancabile campo di calcio.

Ci puoi stare con un gruppo disomogeneo, tanto nessuno resterà indietro, e alla fine ti fermi nei pressi della buca delle siepi, a fare quattro chiacchiere.

E dopo tutto questo sono arrivato anche alla conclusione, che forse è solo un inizio, che se ti piace correre, in fondo, dove lo fai non sia poi così importante.

Chissà cosa imparerò nei prossimi 45 anni.

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Il grosso paradosso della corsa di resistenza.

Perché alla fine, della corsa si può dire tanto, e se ne dice, ma, tolti tutti gli extra, alla base c'è la sopportazione del disagio, del dolore, della fatica.

Chi corre conosce i sintomi e sviluppa una corteccia più o meno grossa per sopportarli. O smette. Perché, di nuovo, è quello che la corsa è, per la maggior parte del tempo.

Il problema in tutto questo è che il dolore è un segnale di pericolo che il corpo ci invia. Un bel sistema di protezione che avvisa "ehi, se continui così potremmo avere dei problemi".

E la vita di chi si allena è segnata dalla costante ricerca di andare un po' oltre quei limiti percepiti, sperando che siano solo tali, e non reali.

Oltre al disagio/sofferenza per il cercare di andare un po' più forte o lontano della volta precedente c'è anche il segnale di qualcosa che è sulla via della rottura.

Il segnale è chiaro e inequivocabile, "fermati, c’è qualcosa che non va”.

Il tutto in una persona normale avrebbe la conseguenza logica dello stop e attesa che il problema si risolva.

Nel corridore di resistenza, però, la mentalità, l'esercizio, lo scopo ultimo è proprio superare quelli che sono i segnali di disagio. E quindi, spesso, il segnale preinfortunio viene ignorato, perché fa parte della cultura della corsa.

E trovare quell’equilibrio non è facile.

E’ di pochi giorni fa la notizia del ritiro dalle corse di Gebrselassie. Alla conferenza stampa della Maratona di New York (dove si è fermato per un problema al ginocchio) ha detto in lacrime che è il momento di fermarsi. “No more complain”. “Basta lamentarsi”. Non si ferma perché ha problemi fisici, ma perché non vuole più lamentarsene. Una scelta comprensibile per chi abbia fatto una carriera della sopportazione del disagio.
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Novembre

Novembre è un mese che ho sempre tollerato solo perché ci cade il mio compleanno.

Da piccoli, si sa, il compleanno è una cosa grossa. E da grandi si resta attaccati alle sensazioni di bambino, quell’imprinting emotivo che ci fa amare luoghi solo perché ci abbiamo trascorso del tempo negli anni della formazione.

Tra piogge a catinelle e impegni extracurricolari si è saltato più di qualche domenica ufficiale, di quelle che di solito vengono riportate quì.

La corsa no, quella è una sorta di seconda pelle, ogni tanto si fa una piccola muta, ma alla fine è sempre lì, una definizione girovaga di un insieme di cose: resistenza, passione, riflessione, evasione, sofferenza, sollievo.

Che alla fine si sintetizzano in un sé percepito: runner.

Non importa se stai correndo o no.

Spesso la corsa è fonte di emozioni che esigono di essere pubblicizzate, altre volte è semplicemente ricettacolo di sfogo o di quieta deambulazione, per cui magari se ne salta il dettaglio su queste pagine.

Così, giusto per fare il punto, in un mese in cui il grosso dell’aspettativa è in genere che passi in fretta.
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