tristezza

Eppure un po’ di tristezza ti assale a leggere un articolo, sulla rivista Correre, che fornisce consigli per passare dalla strada al trail.

Presuppone che ci sia gente che è sempre stata da una parte (che c’è, e forse è la parte ancora più triste). Non ne sto facendo una questione contro Correre, rivista che apprezzavo anche prima degli ultimi, sostanziali, miglioramenti.

Sarà la fortuna di essere cresciuto podisticamente nella sinistra Piave Trevigiana, dove ad ogni garetta domenicale ti trovi fango, asfalto, colline e tutto quello che può esserci tra te e il pianeta su cui vivi, ma io non riesco neanche ad immaginare che qualcuno abbia corso tutta la sua vita sempre sull’asfalto, o sempre fuori.

E, per carità, a uno può piacere più la velocità, sicurezza, omogeneità dell’asfalto, la precisione della pista, la libertà e il contatto con la natura dei sentieri. Son gusti, non si discutono.

Ma per migliorare (che può voler dire andare più veloci, ma anche solo gustare meglio il passatempo che è la corsa) non si può prescindere dal differenziare gli stimoli.

E allora mi va bene che ci si genufletta di fronte alle tabelle che religiosamente forniscono le giuste dosi di veloce, medio e lungo, ma suggerisco anche un po’ di rispetto per i nostri propriocettori, indispensabili lettori ed interpreti di quello che viene a contatto con noi.

Qualche metro sul fango, sulla sabbia, in pista, sull’asfalto, l’erba, la roccia, il cemento migliorano la capacità di sfruttare poi al meglio la nostra superficie preferita.