A cosa pensi mentre corri?

David Foster Wallace, con la sua consueta prosa articolata e coinvolgente, quella dei giorni migliori, ha fatto una riflessione interessante in un suo saggio dal titolo "Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore".

L'argomento era la biografia, che lo aveva profondamente deluso, della grande tennista . Da fan dell'atleta infatti le sue aspettative sul libro erano alte.
Purtroppo, come spesso accade in questi casi, il risultato era stato inferiore alle attese. Con l'occasione di stroncare senza pietà il libro, dai passi citati direi a ragione, Wallace ha sfruttato il momento per una riflessione sulla domanda che è costantemente nelle menti e nei cuori dei tifosi e appassionati: "cosa pensa l'atleta X mentre fa quello che sa fare meglio di chiunque altro al mondo?".

Niente.

Questa è la conclusione a cui giunge il buon David.
E non è un niente vuoto causato dalla pratica che aliena da ogni pensiero ma è un niente pieno di consapevolezza del momento.

Per poter colpire una pallina che viaggia a velocità stratosferiche, o atterrare dopo un salto, o vincere una volata di quarantadue chilometri, il meglio che un atleta possa fare è agire. Il pensiero, specialmente quello introspettivo, filosofico e "dubitante", è meglio che stia fuori dall'anima e dal corpo nei momenti della gara.

La spiegazione scientifica (vedi Speciani e Trabucchi, più volte citati in queste pagine, per una trattazione comprensibile dell'argomento) è che il lavoro controllato della corteccia cerebrale, la parte più evoluta del nostro cervello, quella che ci diffferenzia dagli animali, quella che ci permette di imparare i gesti straordinari che compiamo, è lento e "meccanico".

Passato il periodo dell'apprendimento del gesto motorio è opportuno che la gestione del movimento avvenga a livello sottocorticale, a livello di strutture più primitive e meno introspettive. Gente che fa.

E' anche il motivo per cui sembra che nei duelli del far west vincesse chi partiva per secondo, reagendo meccanicamente ad uno stimolo, invece di agire coscientemente.

L'unico pensiero cosciente che l'atleta di vertice (ma anche quello di base, se vuole esprimersi al massimo relativo*) può permettersi e quello di lasciare agire il corpo ed uniformarsi a questo, nel senso di diventare un tutt'uno presente al momento in essere.

Poi, chiamatelo "essere nella zona", zen, meditazione, consapevolezza estrema, quello che volete, anzi no! non dovete neanche chiamarlo, altrimenti vuol dire che non ci siete.

*: ovvio che la corsa (nel nostro caso) si può anche sfruttare per altre attività, per esempio scrivere mentalmente questo messaggio o altri di cui le altre attività che la corsa consente saranno argomento.